In questa campagna elettorale – che finalmente sta finendo – non ho trovato la voglia, ma spero di sbagliarmi, di collegare le tante esperienze che in questi anni hanno cambiato il modo di fare sociale, sanità, cultura, amministrazione, impresa…
Avrei voluto sentire parlare di beni comuni, di più attenzione al territorio, alle città, ai comuni con nuovi strumenti di cura e amministrazione, di percorsi di autogestione e attivazione, di innovazione sociale, di modelli ibridi. Avrei voluto trovare proposte che trasformavano tutte le pratiche – che in questi anni stanno rispondendo in modo inedito alle crisi sociali ed economiche- in politiche.
Nei tanti laboratori civici attivi nel paese, senza aspettare e cercando ascolto, eravamo convinti che nelle città, grandi e piccole a Nord come a Sud, stavamo trovando nuove soluzioni di fronte ai tanti problemi. Con nuovi strumenti amministrativi e gestionali, cercavamo risposte politiche. Invece è come se queste elezioni avessero dimenticato gli ultimi anni di lavoro di tante e tanti.
Leggendo programmi e dichiarazioni sui giornali, vedo chiaramente che la politica arretra. Si arrocca. Invece di aprirsi e ascoltare, la politica torna indietro avvolgendosi su se stessa. E’ come se questi anni di ricerca e sviluppo di soluzioni e pratiche non fossero mai esistiti. A me pare chiaro che l’offerta politica non sta guardando verso le tante comunità che sono e fanno welfare. E che non si intende cambiare il rapporto tra Pubbliche Amministrazioni e cittadini. Le proposte di cogestione e di coresponsabilizzazione di chi in questi anni ha creato soluzioni, non sono all’ordine del giorno.
Ed è proprio dentro questa frattura che ci sono tantissimi laboratori di Politica, con la P maiuscola, che si stanno ricreando e innovando mutualismo, solidarietà e partecipazione.
In tanti operano nella prossimità creando servizi che riavvicinano persone spesso a rischio esclusione: lo dice la storia di queste terra che non smette di innovare dal basso. Come è sempre accaduto, il basso si attiva e propone soluzioni nuove, nei quartieri delle piccole e grandi città, dall’ex Asilo di Napoli allo Smart Lab di Rovereto.
Perché non riusciamo a trasformare le pratiche in politiche stabili e aperte per tutti, specialmente per i meno fortunati. Perché in questa campagna elettorale non si sente questa tensione? E’ troppo chiedere che si segua il modello delle micro aree di Trieste nel sanitario, del regolamento dei beni comuni di Bologna o che ci siano la Case di Quartiere di Torino in ogni città?
Per questo credo che dovremmo pensare già al 5 marzo. Ora. Anche perché la maggioranza delle proposte partitiche in campo:
- parla alla pancia alimentando paura e risentimento. La tendenza aumenterà anche dopo il 5 marzo aumentando la domanda di autorità che alimenteranno paura e risentimento. Siamo in un circolo molto pericoloso
- hanno una visione di corto periodo senza proposte che ammettano le difficoltà che stiamo affrontando. Come se fossimo bambini, ci trattano come dei creduloni non consapevoli con proposte maliziose. Come se non avessimo vissuto gli ultimi 20 anni di arretramento costante. Come se non avessimo letto di ciò che è accaduto in Grecia o in Spagna. Come se non sapessimo gli attuali processi istituzionali e sociali sono destinati a creare più difficoltà e differenze economiche e sociali.
- non fanno i conti con la realtà. Nessuna lente d’ingrandimento sui contesti di vita più problematici con proposte per spendere meglio le tante risorse che comunque sono in campo. Come se avessimo risorse in abbondanza da ricollocare, ne vogliamo altre senza cambiare, come se non ci fossero disservizi da ripensare alla luce di quanto in questi anni si è proposto a livello di città e di comunità. Dal 5 ci ritroveremo a fare i conti con la realtà.
- invocano leader. La democrazia diretta o disintermediata non può essere l’unica proposta in campo per rispondere a chi non si sente rappresentato. Anzi, rischia di accentuare le differenze tra chi ha accesso e chi no. Dal 5 marzo servono processi rticolati e territoriali.
- nascono per essere contrapposti. O noi o loro. Come se il voto non ci fosse una scelta ragionata, le parole, le immagini e le spiegazioni di questa campagna elettorale cercano in modo evidente una immediatezza che non fa rima con scelta consapevole. Come fossimo divisi tra irrazionali e pragmatici, tra iracondi e coscienti, tra sognatori e concreti.
C’è un dato che ricordo bene delle ultime elezioni amministrative di Bologna, Torino, Roma, Milano che, ne sono sicuro, verrà confermato il 4 marzo. Come emerso con la brexit e con le elezioni di Trump, le periferie e le campagne, cioè le fasce più lontane dai centri economici e sociali, voteranno le proposte inverosimili e difficilmente realizzabili, ma che promettono di rispondere ai bisogni di quelli meno fortunati. E voteranno leader che alimentano paura, ignoranza e insicurezza. Contemporaneamente sono altrettanto sicuro che il 5 marzo tutti i media si meraviglieranno di questi dati.
Possiamo dirlo con 3 giorni di anticipo: chi è più insicuro rispetto al futuro voterà chi gioca con la paura. E andranno a votare meno persone delle ultime elezioni nazionali.
Per questi motivi dal 5 marzo dobbiamo batterci con più lavoro e costanza. Perché quanto abbiamo fatto in questi anni evidentemente non è bastato.
Ma abbiamo una certezza: in tanti siamo meglio di questa campagna elettorale.
Abbiamo dalla nostra pratiche che parlando ai problemi veri della maggior parte delle persone. Sappiamo come stanno le cose perché viviamo nel basso, in mezzo al sociale, al sanitario, al culturale e all’economico, dove c’è più innovazione che nell’alto, dove si fa Politica con la P mauiscola. L’ho capito chiaro ascoltando Ghali che canta “Cara Italia”, nuovo inno dei nostri giorni: mentre la politica diventa razzista, il paese che vorremmo è già qui. E si muove, cambia, guarda al mondo.
Perché mentre il 4 marzo denunceremo la più bassa partecipazione di sempre, assistiamo alla crescita di nuove forme di attivismo e cura delle nostre città e dei nostri quartieri. Perché mentre ci propongono visioni di corto periodo, in tanti stanno investendo su nuove visioni e approcci.
Siamo dentro un circolo bizzaro molto pericoloso ma è tempo di pensare in grande perché l’alto da solo non ce la può fare. Io, cresciuto pensando che l’Europa ci avrebbe aiutato ad essere più inclusivi con i meno fortunati, pensando alla tecnologia e alla globalizzazione come occasioni di crescita per tutte/i, devo smettere di chiedere alla politica per darmi da fare a ricostruire quel senso di giustizia sociale di paese che abbiamo perduto. Per questo, cara Italia, dobbiamo ritrovarci dal 5 marzo. Per parlarci di più e per organizzarci meglio: perché non basta impegnarci nelle nostre città tutti i giorni, nel lavoro e nella vita quotidiana. Per cambiare pensando a chi rischia di non farcela, non ci sono scorciatoie e malizia. Serve cambiare le istituzioni guardandoci in faccia e prendendoci il tempo che serve.
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