In tempo di tagli di fondi, sempre crescenti (e doverosi in molti campi), l’idea di co-responsabilizzare le comunità sembra essere una delle poche vie a disposizione.
Ma fino a che punto possiamo chiedere alla comunità?E come?
L’esempio della prima campagna elettorale di Obama è ancora forte: grazie alla raccolta fondi attraverso web, Mr.Obama ha cambiato le elezioni chiedendo appoggio concreto, cioè soldi, alla propria comunità, andando oltre l’assioma delle grandi lobby.
Interessante ricordare che è alta l’incidenza delle persone che hanno donato più volte. Cioè, se dono, son contento e torno a donare.
Sul tema della comunità, ho già parlato in ottica politica ma in questo post mi voglio soffermare su alcune operazioni di crowdfounding che a Bologna, città in cui vivo, più enti hanno lanciato.
“Crowd funding’ (o crowdfunding) descrive un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizzano il proprio denaro in comune per supportare gli sforzi di persone ed organizzazioni.
È un processo di finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Il termine trae la propria origine dal crowdsourcing, processo di sviluppo collettivo di un prodotto. Il crowd funding si può riferire a processi di qualsiasi genere, dall’aiuto in occasione di tragedie umanitarie, al supporto all’arte, al giornalismo partecipativo, fino all’imprenditoria innovativa e alla ricerca scientifica.
La Rete è solitamente la piattaforma che permette l’incontro e la collaborazione dei soggetti coinvolti in un progetto di crowd funding”.
Per cominciare, a Bologna nessuno parla di crowfounding: la definizione corrente è raccolte pubbliche di donazioni.
La Cineteca, con parte del sito web dedicato (embeddo qui sotto un’articolo uscito su LaRepubblica tempo fa), poi le decine e decine di iniziative per il restauro della Basilica di Santo Stefano, qui raccolte dal Resto Del Carlino, poi il caso del Bologna calcio.
Anche da parte della politica, non è strano sentire proposte in questa direzione (qui).
Di soldi non ce ne sono più e quindi si fa quello che tra amici chiameremmo “colletta“: ma questo è il territorio delle coop, del mutuo soccorso e dello spirito mutualistico che da fine ‘800 è asse portante della società.
Quindi perchè stupirsi?
Se poi pensiamo alle innumerevoli relazioni con le Fondazioni Bancarie e con le attività di responsabilità sociale d’impresa, le relazioni, o per meglio dire, la co gestione territoriale, la governance, è un dato di fatto.
Ma da professionista del web, non posso non vedere che esiste un possibile upgrade: questo tipo di campagne possono prendere molta più energia andano on line. Ne hanno parlato anche il sole24ore e la repubblica confermando l’attualità del tema. Per quanto mi riguardaassieme a Francesco Pirri, studente di tagbolab, approfondiremo la relazione tra crowfounding e PA nella sua tesi.
Come ogni tipo di progettualità che sia apre alla partecipazione di tutti, vedi alla voce wikipedia, il crowdfounding offre innumerevoli possibilità tra pubblico, provato e no profit con la campagna “acqua bene comune” su tutti.
Provo ad elencare 10 motivi, un pò all’americana: sicuramente non sono esaustivi, ma che possono essere utili:
- affidarsi alla folla è andare verso una coda lunga di donazioni. Se allarghiamo la quantità di investitori, possiamo abbassare la quantità di denaro di ogni investitore.
- transnazionalità: l’appeal delle nostre città (quanti magnati russi finanzierebbero il restauro di un Palazzo di Venezia?) e il legame che oriundi italiani e/o turisti hanno verso in territorio italiano, sono elementi da non sottovalutare: per quanto riguarda l’Università di Bologna per esempio, quanti ex studenti ora manager vorrebbero aiutare la più antica università del mondo?
- maggior trasparenza e tracciabilità: se ti dono dei soldi, vorrei sapere cosa ne fai. Se sei opaco nella gestione finanziaria, non mi fido e la sensazione di alimentare il buco nero della spesa pubblica è evidente. La donazione a progetto potrebbe essere una risposta, anche sperimentale.
- intermediazione bancaria: nulla contro le banche, ma se possiamo fare tra noi, non è meglio?
- si abbatte il rischio e la commistione di interessi: vedi alla voce numero 1. Con più investitori si evitano concentrazioni e lobby più forti della politica.
- indipendenza: quante lobby finanzierebbero inchieste giornalistiche scomode? Oppure, quanti progetti sociali solitamente tagliati, potrebbero essere sostenuti?
- creatività: la saggezza della folla è a disposizone. Quante più interazioni immettiamo, meno possibilità di fallimento ci sono.
- meritocrazia: solo l’idea vincente e condivisa, viene finanziata
- fiducia: solo rendicontando, solo dialogando in modo trasparente, posso convincere la mia comunità a finanziare il progetto
- trovabilità: devo arrivare io per dire che avere un sito web dedicato aumenta la possibilità di contatto?
Ovviemente non è tutto oro che luccica: aprirsi agli investitori della rete comporta una costo molto alto in termini di risorse umane in community management.
Non basta chiedere visto che è necessario essere credibili e se aumenti la quantità di relazioni da gestire, è ovvio che parte del tuo tempo sarà volto alla converazione, all’ascolto e al monitoraggio.
Ma gli esempi di crowfounding sono sempre più numerosi: dal caso di Diapora, finanziato anche dal CEO di Facebook, cioè da un concorrente, fino ad arrivare a siti dedicati , fino alla neonata piattaforma tutta italiana Eppela.
Ma è il caso del Louvre che voglio citare.
In pieno stile crowfounding, il celebre museo oramai già alcuni mesi fa, ha lanciato una campagna di comunicazione per poter comprare un’opera d’arte. Come dicevo, l’idea di chiedere alla propria comunità di partecipare alla raccolta fondi non è per nulla nuova ed, anzi, trova linfa vitale nel comunitarismo che, anche nell’accezione italiana, è stato tanto decantato dai vari Putnam.
Ma la differenza la fa lo stile.
Il Louvre ha creato una campagna di comunicazione ad hoc, con un sito web dedicato www.troisgraces.fr, in cui tutto gira attorno all’opera acquistata grazie ai 5000 donatori.
Anzi, è il messaggio nato attorno alla campagna, ad essere al centro.
Se infatti andate sul sito, trovate ad accogliervi questo:
Che diventava, in pochi secondi, così:
E’ la vecchia e cara colletta a farla da padrone ma, con alcuni upgrade, può diventare un modus operandi che migliorerebbe sensibilmente il raporto tra istituzioni e comunità: ogni ente può chiedere aiuto ma in cambio deve garantire una rendicontazione trasparente.
E’ la dialettica tra dentro e fuori ad essere al centro.
Il rapporto continuo, basato su una reputazione costruita day by dy, è la conditio sine qua non. La colletta viene dopo, prima c’è un rapporto duraturo e non più top down.
Sono pronte le istituzioni ad aprirsi?
3 Responses
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ciao mic, oggi ho trovato questo articolo che parla di una coppia di norvegesi che ha ideato sul web un metodo particolare per raccogliere denaro necessario alla salvaguardia delle foreste e dell’ambiente, ma non è accettato da molti (compreso il WWF). Non so se può essere considerato crowdfounding, visto che cmq non si fa una semplice colletta ma si vendono dei contenuti. Cosa ne pensi? http://it.peacereporter.net/articolo/28730/Norvegia,+%27Fuck+for+forest%27:+ecologia+ed+erotismo+per+salvare+il+pianeta
Ti do un altra chicca a proposito; le navi di greenpeace, le raimbow warrior, sono state comprate in crowdfunding 😉 http://givinginadigitalworld.org/2011/02/20/beautiful-greenpeace-crowdfunding-site-lets-you-buy-a-piece-of-the-new-rainbow-warrior/
grazie! davvero un berl caso che dimostra che si può fare…